Da quando The Donald è “salito al soglio” molte sono state le sue decisioni – a dir poco – discutibili. Minacce di dazi come sanzioni trasversali a tutto il mondo (il Presidente USA non può approvare i dazi, ne riparleremo), Tweet con Gaza trasformata nella “Riviera del Mediterraneo“, DOGE, rapimenti in strada di studenti (con tanto di furgone bianco e passamontagna), minacce a Putin per poi accoglierlo su un tappeto rosso in Alaska, taglio di fondi alle università e USAID, dichiarazioni di essere Il RE (cosa che costò la presidenza a Nixon)… insomma in questi otto mesi di presidenza, Trump ha completamente scombussolato l’ordine “morale” degli USA all’interno dei rapporti di potere con il resto del mondo. I sondaggi sul supporto al Presidente sono i più bassi della storia statunitense, e il prestigio internazionale degli USA, sebbene siano universalmente riconosciuti (ancora) come il paese più grande e forte del mondo, è stato fatto scricchiolare in modo considerevole. Eppure, c’è stata una notizia che ha stuzzicato la mia curiosità. Il Governo statunitense ha acquisito il 9.9% di Intel per 8.9mld$. Vediamo perché qualcuno la potrebbe definire una mossa geniale (o no), e quali ripercussioni potrebbe avere sull’economia e sulla politica internazionale.
I chip sono molto importanti (ma va?)
I semiconduttori sono il petrolio del XXI secolo, il carbone del XIX, le spezie del XV. In buona sostanza, sono il bene che più di tutti sta modellando l’economia e la vita della popolazione. D’altronde, questo non ci dovrebbe stupire, dal momento che una buona parte della nostra vita si basa proprio sulla comunicazione a distanza. Non a caso alcuni tra i più grandi avanzamenti tecnologici degli ultimi secoli sono stati fatti proprio grazie alla possibilità, data a gruppi di ricercatori sempre più distanti tra loro, di condividere informazioni e di “lavorare insieme”.
I Chip dominano l’industria nella stragrandissima maggioranza delle faccende umane, dall’intrattenimento all’educazione, dall’industria pesante alla difesa, fino ad arrivare persino all’agricoltura, alla pesca e alla caccia. In pratica, i semiconduttori sono entrati in modo spaventosamente penetrante in ogni singola attività dell’essere umano. Se finiscono i chip, non si ferma la Apple, crolla l’economia. Beh, non tutta in realtà, ma quella dei paesi più avanzati sì. L’economia mondiale è ancora ampiamente dominata dalla produzione fisica1, ma – comunque – trovo che sia molto difficile valutare effettivamente come i chip possano aver influenzato l’economia, proprio perché questi sono così tanto presenti praticamente ovunque – il che rende molto complesso rimuoverne l’impatto in modo sistematico.
A prescindere da questo, comunque, questa enorme rilevanza dei semiconduttori è un problema. Perché? Beh, molto banalmente perché la maggioranza della produzione dei chip più avanzati è in Asia. TSMC a Taiwan, Samsung in Corea del Sud, Huawei in Cina… tutti posti bellissimi. Ma Taiwan è geopoliticamente fragilissimo. La Corea del Sud è un alleato degli USA… per ora. e la Cina? Beh, la Cina – per gli USA – è un problema ancora più grande.
Qual è stata la risposta di Trump a questo dilemma? Ovviamente, la stessa che ha dato a tutte le domande: “MAKE ‘MMURICA GREAT ‘GAIN” Riportiamo la manifattura dei Chip a casa nostra. E chi può farlo?
Intel. Il Vitello dai piedi (non più) di balsa
Intel è l’unica Big Tech americana che progetta, fabbrica e integra chip sul suolo USA. Dico l’unica Big Tech perché effettivamente non è l’unica azienda a produrre chip, c’è anche Texas Instruments, c’è Micron, c’è Broadcom… poi ci sono quelli che si appoggiano a Global Foundries, come AMD, Nvidia e Qualcomm, ma la balena è ancora Intel.
Il problema è che Intel arriva da un periodo difficilotto. La concorrenza ha cominciato a mangiare i margini del colosso, e i ritardi tecnologici che ha accumulato (sebbene non clamorosi) sono significativi per quanto riguarda l’avanguardia della tecnologia. Dunque, cos’ha pensato di fare Intel, per controbilanciare questa situazione complessa?
Ha aperto un ramo d’azienda di Foundry. Naturalmente, non stiamo parlando delle SUE foundries, quelle le ha sempre avute. Parliamo di “fonderie” da appaltare ad altri. In pratica, ha aperto una divisione che si propone di fare quello che fa TSMC, ovvero produrre chip per altri. Il che è bello e buono per l’azienda, ma vista la poderosa diminuzione dei margini nei periodi recenti2, il fatto che la divisione foundry sia in passivo, e il mancato salto sul treno dell’IA, gli investitori stanno spingendo per liberarsene.

Certo il nuovo CEO Lip-Bu Tan ha una formazione da fisico investitore, e sta cercando di minimizzare le perdite e di sviluppare una roadmap per aggiustare la cassa di Intel. Tuttavia, questo non è certamente un processo che durerà un trimestre, e le prospettive dell’azienda – per ora – non sembrano affatto tra le più rosee. Insomma, Intel non è morta, ma non è neanche serenissima.
E quindi, The Donald?
Immaginate lo scenario:
- Situazione geopolitica abbastanza instabile
- Debito Pubblico alle stelle
- Competizione internazionale sempre più pressante
- Taiwan
- CHIPS and Science Act3
- Secure Enclave4 del Dipartimento della Difesa
- “MAKE ‘MMURICA GREAT ‘GAIN” – lo urlo sempre perché lo immagino urlato
Non starò a spiegare l’intero scenario che ha portato alla decisione di cui stiamo parlando perché, oltre che francamente non ne ho le competenze, non ho intenzione di passare 5 ore a scrivere su come lo scenario internazionale della produzione di chip possa aver influenzato le scelte economiche del Presidente (su praticamente tutto quello che ha fatto). Tuttavia, è importante notare come alcune di questi punti possano aver formato le scelte che hanno condotto alla decisione di questa acquisizione miliardaria.
Innanzi tutto, il Chips and Science act (2022), insieme all’iniziativa Secure Enclave avevano stanziato dei fondi da distribuire sotto forma di esenzioni, contributi a fondo perduto, piani di salvataggio… ma non tutti i fondi stanziati erano stati utilizzati, fino a ora.
L’amministrazione Trump ha ben pensato (a mio avviso) di riconfezionare questi finanziamenti pubblici, facendoli passare come piano di salvataggio, e veicolandoli sull’acquisto di vere e proprie quote di Intel. Le possibilità c’erano tutte, anche se l’operazione doveva essere portata avanti con molta attenzione. In effetti, non sono prestiti, ma un vero e proprio capitale permanente per l’azienda. Questo, oltre a legare le finanze USA a quelle di un operatore privato, mette anche la stessa azienda in una situazione delicata. Vediamo un po’ meglio cosa intendo.
La mossa “Geniale”
Vediamo l’operazione un po’ più nel dettaglio. Il Governo acquista (con i fondi di cui abbiamo parlato prima) e in più tranches, il 9,9% delle azioni di Intel al prezzo accordato di 20,47$ ad azione. Non è una cifra altissima, ma neanche bassissima, infatti le borse hanno reagito tiepidamente a questo acquisto. 8.9mld$. Subito sotto il 10% necessario (per la SEC) a sedere nel consiglio di amministrazione. Esatto, in pratica il Governo ha acquistato esattamente la cifra che gli permetteva di non avere rogne con la SEC ma di finanziare lautamente l’azienda.
Naturalmente, il fatto che Trump non abbia il controllo non significa che non possa far pesare la sua quota su Intel. A parte il fatto che se da un giorno a un altro vengono vendute il 10% delle quote di una società, tanti altri investitori sarebbero spinti a vendere (e quindi la capitalizzazione ne risentirebbe ancora di più), comunque, Intel dovrebbe rispondere – per il DIECI PERCENTO – al pubblico. Se perde soldi, perde soldi dei cittadini. Se ne guadagna, ne guadagnano i cittadini.
Sarebbe assurdo pensare che una quota del genere (specialmente se detenuta dal Governo) non abbia un impatto sulle decisioni aziendali. Certo, Trump non potrà dare ordini (che, poi, è tutto da vedere, visto il soggetto), non potrà definire strategie. Ma può muovere sistemi di incentivi e disincentivi molto più che con le sole leggi.
A ben vedere, è quasi un sogno bagnato di Trump, muovere mercati solo parlando, a quanto pare.
Ma non si tratta solo di questo. Ed ecco la genialata. Nel contratto esiste una clausola condizionale esercitabile nei prossimi 5 anni, che lega la divisione foundry alla partecipazione del Governo alle azioni. In pratica è stata inserita una warrant con strike a 20,47$ per l’acquisto di un ulteriore 5% di azioni nel caso in cui la quota di Intel delle sue Foundries scendesse al di sotto del 51%.
L’intento è chiaro: se Intel cede parte della sua produzione, il Governo avrà davvero voce in capitolo nel consiglio di amministrazione, e potrà spingere per un buy-back col fine di mantenere la produzione all’interno degli USA, in cambio di ulteriori 4.45mld$ che (idelmente) verrebbero utilizzati per riacquisire il controllo della divisione foundires ipoteticamente smembrata.
Non è una mossa economica
Intel non naviga in buone acque, diciamocelo. Acquisire azioni non è un’ottima mossa, economicamente parlando. Già da quando è stato siglato l’accordo, le azioni di Intel sono scese al di sotto del prezzo di acquisto da parte dell’Amministrazione (al momento in cui sto scrivendo).
È un’evidente prestito condizionato, che però non è passato per i mercati tradizionali. D’altronde, è capitale pulito, a un prezzo accettabile, che non rischia di diluire la proprietà e costituisce una partecipazione passiva senza potere di governance.
Ma quindi, qual è stato lo scopo di questa “mossa”?
L’obbiettivo non è economico e non è di politica interna, è proprio una mossa geopolitica: riportare la produzione di chip all’interno degli USA. I 9mld di questa operazione, erano attesi sotto forma di grants, di aiuti, non sotto forma di equity. Certo, questo non risolleverà le fortune di Intel, ma col nuovo management, una buona strategia di attività e dei nodes competitivi, oltre al fatto che – a garanzia dell’operazione non c’è un investitore comune, ma Washington che – vuoi o non vuoi – è quasi una certezza, FORSE i clienti premium torneranno ad “affittare” la capacità produttiva statunitense.
In conclusione
Di base, come già detto, quest’attività non cambierà il mondo della tecnologia nè tanto meno quello della politica. Ma è comunque un’operazione innovativa e intelligente che – se portata avanti assieme a un buon investimento in R&D e a qualche grant (che, siamo sicuri, non tarderà troppo ad arrivare) – potrebbe controbilanciare il peso geopolitico della Cina nei confronti di Taiwan e magari riportare qualche pezzo di produzione direttamente nella silicon valley.
- https://www.wider.unu.edu/sites/default/files/wp173.pdf ↩︎
- https://www.marketwatch.com/investing/stock/intc ↩︎
- https://borsaefinanza.it/chips-and-science-act-come-funziona-piano-usa-da-250-miliardi-di-dollari/ ↩︎
- https://www.defense.gov/News/Releases/Release/Article/3906926/department-of-defense-department-of-commerce-joint-statement-announcement-in-su/ ↩︎



